Pensa in inglese!

Ovvero di Davide e la creatività linguistica

Spesso durante incontri con le insegnanti colleghe e non, parlo di creatività linguistica. Un pomeriggio, mentre appunto mi stavo entusiasmando su questo argomento, un inglese che si occupa di L2 all’università, un certo H.C., esplode in una risata cattiva: ─ Ecco, allora possono inventare, dire qualsiasi stupidaggine, e va bene tutto!

 

Le cose non stanno proprio così, la mia idea di creatività linguistica parte da una frase che tutti prima o poi ci siamo sentiti dire: “Pensa in inglese!”.

Pensare in inglese???

Accidenti è la cosa più difficile del mondo, solo chi è bilingue, chi inizia a frequentare una lingua straniera da piccolissimo, o chi l’ha studiata per anni ci riesce, ma come può un ragazzino o una ragazzina pensare in inglese?

Può, può… Me lo ha insegnato Davide 😊.

 

Ero fresca di laurea ed entusiasta. Volevo insegnare l’inglese ai bambini e, dal momento che non era una disciplina ministeriale, ho aperto una scuola per bambini. Gruppetti da sei studenti della stessa età, aule senza banchi, con moquette verde prato, scatole di realia, quali cibi, animaletti, oggettini vari e un grande tavolo intorno a cui ci sedavamo tutti con fogli, pastelli, pennarelli, pupazzetti. Infine, libri in inglese, vocabolari illustrati, poster, registratore e televisore con videoregistratore. Eh sì, parlo di parecchi anni fa…

In un gruppo di bambini di sei anni, c’era Davide, origine della mia prima grande sfida e grandissima soddisfazione. Davide non stava fermo un attimo, distraeva tutti e alla fine dell’ora sapeva assolutamente tutto quello che avevamo fatto, mentre gli altri… NO.

Avendo io un’avversione particolare per la consegna “colora”, soprattutto quando serve solo a farli stare fermi e non è abbinata a un’attività linguistica o comunque di pensiero, con Davide iniziai a sperimentare. Sottolineo che ero fresca di laurea e non sapevo nulla, tantomeno che cosa fare in una situazione di questo tipo. Decisi di impegnarlo in attività manuali che non c’entravano assolutamente nulla con l’inglese, ma avevano il potere di tenerlo occupato e allontanarlo dal suo ruolo di disturbatore. Mi viene ancora da sorridere se penso alle mie sperimentazioni da novellina, ma vi assicuro che la buona volontà, la tenacia e i mille dubbi la facevano da padroni e ce la mettevo tutta per maneggiare i rapporti con i bambini con cautela e cura.

 

Un pomeriggio stavamo giocando, seduti in cerchio sul pavimento, con have got. Era una di quelle attività strane che ai tempi i genitori consideravano inutile. Uno dei bambini sceglieva un oggetto da un mucchietto di realia e mi diceva all’orecchio il vocabolo corrispondente in inglese. Gli altri quattro dovevano porre domande quali “Have you got a…?” per indovinare l’oggetto. In tutto erano cinque, non sei, perché naturalmente Davide non partecipava e a carponi era sgusciato sotto il tavolo.

A un certo punto, stanca, anzi proprio stufa, lo chiamai con il tipico e famoso urlo da maestra: ─ DAVIDE!

BAM! Si era alzato di scatto e aveva sbattuto contro il piano del tavolo.

─ Ossignore, Davide… ti sei fatto male? ─ ero davvero preoccupata.

─ Yes, I’ve got bua!

 

Davide sapeva dov’era, con chi era e che cosa stava facendo. Inoltre, mi aveva dato la sua prima dimostrazione di saper pensare in inglese ovvero esprimendosi con gli item linguistici che conosceva. E se questa non è creatività… Creatività nel senso in cui l’ha definita Einstein dicendo: “La creatività non è altro che un’intelligenza che si diverte”.

 

Non vedo Davide da tanti anni, ora è un uomo, un ingegnere e si fa chiamare Dave.            

 

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