Dobbiamo fare in modo che l’alunno con ASD si adatti all’ambiente? Oppure al contrario, dobbiamo essere noi, l’ambiente circostante, ad adattarci al mondo autistico?

Si tratta con evidenza di un difficile equilibrio al quale sono sottoposti tutti gli attori che vengono in contatto con le persone con condizioni di ASD (disturbi dello spettro autistico): famigliari, operatori della scuola, rete amicale. Tenterò brevemente di affrontare l’argomento facendo riferimento alla letteratura scientifica internazionale e ai modelli di cura e presa in carico ormai ampiamente diffusi e validati per lo spettro dell’autismo (ad esempio, TEACCH, Early Start Denver Model).

E’ innanzitutto utile distinguere il ciclo di vita dei bambini, in particolare i bambini prescolari da quelli più grandi.

 

autismoNel bambino molto piccolo, inferiore ai 5 anni di età, i sintomi dell’area sociale (ad esempio, atipie della comunicazione, deficit di linguaggio, scarsa motivazione alla socialità) e quelli di ambito non sociale (ad esempio, stereotipie motorie, attenzione iperfocalizzata, insistenza verso la ripetitività) tendono ad intrecciarsi notevolmente. Diversi anni fa si era intuito che il problema nucleare dell’autismo fosse relativo ai meccanismi sociali di base, con l’ipotesi di un deficit del “cervello sociale”: fin dalla nascita il bambino con un profilo ASD ha uno scarso interesse per la socialità, sviluppa in modo ritardato o atipico una serie di abilità di base connesse con la comunicazione (ad esempio, contatto oculare, attenzione sociale, imitazione) e si concentra conseguentemente su aspetti concreti del mondo circostante (interessi selettivi).

Più recentemente la letteratura sembra aver capovolto la questione. Alcuni studiosi importanti spiegano che potrebbe essere vero anche il contrario: il bambino con ASD possiede abilità attentive del tutto peculiari, che si “appiccicano” al mondo circostante. Quando è attratto da un oggetto, il bambino fatica a spostare l’attenzione su altro, perdendo così importanti opportunità di apprendimento sociale. Nel bambino molto piccolo questo ragionamento è importante perchè ci permette di affermare che, orientando l’attenzione dell’infante verso il mondo circostante, potremmo limitare gli effetti secondari dell’ASD sulle abilità di adattamento.

In effetti i programmi innovativi di trattamento per i bambini piccoli (ad esempio, Early Start Denver Model) consigliano varie attività ai genitori e agli operatori per aumentare e potenziare le abilità sociali di base: divertirsi insieme, imitarsi, condividere brevi sequenze di gioco.  Applicando queste metodologie, viene “aggredita” la tendenza del bambino a concentrarsi sul mondo degli oggetti e viene insegnata e potenziata la capacità di divertirsi e collaborare negli scambi sociali. Da questo punto di vista, nel bambino prescolare, adattarsi troppo al mondo autistico potrebbe voler dire perdere occasioni di apprendimento: più siamo in grado di connettere socialmente il bambino, più limiteremo gli effetti a cascata di un’attenzione troppo focalizzata sui suoi interessi.

al crescere dell’età, il profilo di funzionamento dei soggetti con ASD si fa più chiaro

Diversamente, al crescere dell’età, il profilo di funzionamento dei soggetti con ASD si fa più chiaro. Diventa possibile capire con più precisione il livello di competenza linguistica e di intelligenza e, di conseguenza, anche il livello di gravità della sintomatologia generale. La condizione autistica presuppone che una quota di interessi selettivi e di scarsa motivazione sociale siano “fisiologici” e rappresentino pertanto un fattore costituzionale imprescindibile.

Per questi motivi, i modelli più affermati di presa in carico per l’ASD (ad esempio, l’approccio TEACCH) autismosuggeriscono il concetto di un “diritto all’autismo”: le persone con ASD devono essere rispettate nel bisogno di espressione delle proprie caratteristiche costituzionali, anche se possono deviare dalle usuali convenzioni sociali. Non solo, gli operatori esperti di autismo (la famiglia, gli operatori clinici, gli operatori della scuola) dovrebbero diventare una sorta di “mediatori culturali” e permettere che il mondo circostante si adatti in una certa misura per accogliere in modo rispettoso quella specifica persona.

Ovviamente questo implica una serie di conseguenze concrete: la tolleranza delle eventuali atipie del soggetto e/o degli interessi ristretti, la tolleranza che il rumore sociale possa rappresentare un forte fastidio per il soggetto e vada pertanto limitato, la gestione delle peculiarità sensoriali che spesso accompagnano invariabilmente anche le condizioni a più alto funzionamento cognitivo e linguistico.
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Detto questo, appare evidente che il ruolo degli operatori dovrebbe proprio essere quello di gestire il difficile equilibrio tra: 1) adattamento al mondo circostante da parte del soggetto con ASD, con insegnamento e potenziamento della comunicazione-sociale e riduzione dell’attenzione verso gli oggetti e 2) adattamento del mondo circostante alle caratteristiche dell’autismo, nel rispetto e nel diritto di ogni persona a potersi esprimere secondo la propria natura e il proprio stile. Nel bambino molto piccolo, possibilmente di età inferiore ai 3 anni, va certamente sottolineato e rinforzato il punto 1, sulla base di una serie di evidenze scientifiche ormai consolidate e attraverso l’utilizzo di specifici strumenti che dovrebbero essere patrimonio culturale degli operatori didattici e clinici (ad esempio, uso delle immagini per la comunicazione, strutturazione degli ambienti e delle attività).

Il professor Roberto Padovani è psicologo e psicoterapeuta e lavora presso l’AUSL di Modena con incarichi al Centro Autismo e al Servizio NPIA