Dalle isole di plastica al più recente Plasticrust: capiamo la situazione del mare, e cosa fare per aiutarlo!

Alzi la mano chi, pensando all’estate, non immagina già la gioia del primo tuffo in mare! Cristallino e calmo, o mosso con onde a cavalcare, con sassi o sabbia su cui poggiare i piedi: immergersi in mare regala una sensazione di leggerezza impagabile!

Ma come sta il mare? Come stanno gli oceani? Avevamo già accennato all’argomento qui, ma è bene approfondirlo, considerando anche che il loro stato di salute interessa poi anche la nostra.

Il nostro mare

Purtroppo non se la passa per niente bene il nostro mare, visto che da una ricerca dell’Istituto Oikos – organizzazione non-profit impegnata in Europa e nei paesi del Sud del mondo nella tutela della biodiversità e per la diffusione di modelli di vita più sostenibili – è emerso che circa 53 mila tonnellate di plastica, ogni anno, vengono riversate nel Mar Mediterraneo, di cui ben l’80% è dispersa a terra.  

Come ci arrivano i rifiuti in mare? Semplice: sparsi per monti, boschi e valli, grazie a fiumi e torrenti – che agiscono da veri e propri nastri trasportatori – i rifiuti arrivano dritti fino al mare e all’oceano.

Isole di plastica

Ad oggi nel mondo se ne contano 7: vere e proprie discariche galleggianti intrappolate in vortici acquatici, in cui confluiscono milioni di tonnellate di rifiuti, derivanti per gran parte dai più grandi fiumi del pianeta: Yangtze, Xi e Huanpu  (Cina), Gange  (India), Oyono  (Nigeria), Brantas e Solo (Indonesia), Rio delle Amazzoni (Brasile), Pasig (Filippine) e Irrawaddy (Birmania).

La più grande – denominata il Great Pacific Garbage Patch – si trova nell’oceano Pacifico, tra la California e l’Arcipelago Hawaiano, e si stima che potrebbe occupare dai 700 mila km2 fino ai 10 milioni di km2. Ovvero, quanto la Penisola Iberica, o gli Stati Uniti d’America.

Ma non occorre andare in mari o oceani troppo lontani, per trovarne una: tra la Corsica e l’Isola d’Elba, nel mar Tirreno, Legambiente ha infatti segnalato la presenza di un’isola di plastica monouso, che Greenpeace ha quantificato in ben ottanta tonnellate di plastica.

10 rivers 1 ocean

Dopo aver attraversato gli oceani a remi e il deserto del Sahara e gli Stati Uniti di corsa, l’esploratore e avventuriero Alex Bellini è partito nel 2019 per quello che probabilmente sarà il suo viaggio più incredibile: quello nel mondo sommerso dalla plastica.

A bordo di imbarcazioni improvvisate e da lui stesso costruite (con materiali riciclati), ha dato vita alla campagna “10 rivers 1 ocean”, partendo dal Gange per poi discendere successivamente i 10 fiumi più inquinati del mondo; arrivando, nel 2022, fino al Great Pacific Garbage Patch.

Al grido di #weareallinthesameboat, l’hashtag scelto per comunicare la campagna sui social, Alex lancia un messaggio sull’urgenza di affrontare il problema della plastica (ma anche di tutti i rifiuti in generale) nei mari, problema che, come lui dice:  

“ci unisce e va oltre le divisioni religiose, linguistiche, culturali, politiche o economiche”.

Un problema che ci unisce

Ed è proprio così: quello dell’inquinamento degli oceaniè un problema che non tocca solo (come sa già non fosse comunque abbastanza) la sfera ambientale, ma anche, come dicevamo, la salute di tutti noi.

Le microplastiche che abbiamo visto finire nei fiumi e poi nei mari, arrivano a mescolarsi con il plancton, alla base della catena alimentare delle creature marine. Creature che noi peschiamo, e mangiamo.

Il Plasticrust

Altro fenomeno legato all’inquinamento dell’ecosistema marino, recentemente venuto alla luce, è quello del Plasticrust.

Nel 2016, un gruppo di ricercatori portoghesi del “Marine and Environmental Sciences Centre” di Coimbra, ha osservato delle strane incrostazioni colorate sulle scogliere vulcaniche dell’Isola di Madeira, che dopo solo 3 anni sono passate da un singolo avvistamento, a ricoprire quasi il 10% della superficie rocciosa.

Di cosa si tratta? Analisi chimiche del materiale hanno rivelato che si tratta di polietilene (PET): probabilmente le incrostazioni hanno avuto origine dallo schianto di grossi pezzi di plastica sulla roccia.

Il “plasticrust”, a Madeira, sta così lentamente (ma non troppo) sostituendo le incrostazioni biologiche sulle rocce, superfici su cui organismi marini, come i cirripedi e le lumache di mare vivono, e si nutrono.

Cosa possiamo fare?

Dunque la situazione è molto, molto seria. Oltre a campagne ad hoc di grandi ONG e progetti e sperimentazioni avviate sui fiumi e nei mari in sinergia con le istituzioni da parte del Consorzio Corepla, in prima linea nel sensibilizzare i cittadini, le imprese e i Comuni alla corretta gestione degli imballaggi in plastica, sono stati scoperti enzimi, batteri e larve di insetti capaci di digerire determinate plastiche, il che lascia ben sperare.

Ma la soluzione che ci permetterebbe di andare avanti senza rivedere le nostre abitudini,  non esiste.

Ecco perché è necessario ripensare i nostri comportamenti e modi di fare. A partire dal non gettare più rifiuti in plastica per terra (che, come si è visto, poi raggiungono il mare), fino al fare con coscienza la raccolta differenziata. Per gli animali, per la natura.

Tutto questo, anche, per continuare a tuffarci in un mare blu. Noi, e le generazioni future.

Photo copertina by frank mckenna on Unsplash