Oggi un ragazzo scolarizzato conosce circa 650 parole, nel 1975 erano 1500. Cosa può fare la scuola? La riflessione di Valerio Camporesi


Sul valore delle parole a scuola, e non solo a scuola, si è già detto molto e si è anche urlato molto, come Nanni Moretti nella ben nota scena di Palombella rossa in cui, di fronte a una malcapitata giornalista che gli parla di un ambiente “cheap” prima la schiaffeggia e poi le urla: “Le parole sono importanti!”.

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Nanni Moretti, Palombella Rossa

possiamo pensare in base al numero delle parole che possediamo

E come dargli torto? Certamente non gli darebbero torto tutti quegli insegnanti che quotidianamente portano avanti la loro lotta contro un linguaggio sempre più povero (ce lo dicono gli studi: oggi un ragazzo scolarizzato conosce circa 650 parole, nel 1975 erano 1500) che, di conseguenza impoverisce la mente perché noi – come ci ricorda Umberto Garimberti – “possiamo pensare in base al numero delle parole che possediamo“. Ogni parola in più amplia le pareti della nostra mente e, come ricordava a suo tempo Don Milani, gli sfruttati vinceranno la loro battaglia contro gli sfruttatori proprio conoscendo una parola in più di loro; a conoscerne una di meno resteranno sempre dove sono, nel limbo di una sottomissione a stento riconosciuta.

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Da “Il Maestro” di Fabrizio Silei e Simone Massi, Orecchio Acerbo editore

Linguaggio povero, ma anche standardizzato, sempre più uniformato ai canali di comunicazione di massa, alla tv e ai quei social media che infarciscono le bocche dei nostri ragazzi di parole tutte uguali. Ogni mattina, a scuola, ascolto discorsi che iniziano con un “Cioè”, “Nel senso che”, “Cioè nel senso”, che è per l’appunto uno dei cliché dei nostri media; escono fuori così, come se nulla fosse, perché tutti parlano così. Ci si potrebbe rider su; e invece mi arrabbio (ridendo) e cerco di far capire loro (sempre arrabbiato e sempre ridendo) che chi parla con le parole degli altri alla fine penserà con le parole degli altri, che un linguaggio ricco, individuato si costruisce nel tempo ma che piano piano fa fiorire una persona, la rende individuo: e mi tocca citare noti personaggi dei nostri media, fiori appassiti che rimestano nel brodo dei luoghi comuni delle parole e del pensiero e che quasi mai usano il congiuntivo, ormai confinato nell’angusto spazio di una élite culturale e segno quasi di affettazione, un qualcosa di cui tra poco – se non già ora – ci si dovrà vergognare.  È una battaglia dura, ma ci provo.

chi parla con le parole degli altri alla fine penserà con le parole degli altri

Una battaglia contro la povertà e l’omologazione (via d’accesso per il conformismo sociale, culturale e politico delle nostre società di massa) ma anche contro la perdita di significato, o meglio la fuoriuscita di certe parole dal proprio significato. Si pensi a un insieme ormai vasto di termini assai significativi del nostro gergo politico che vengono continuamente citati a sproposito, deformati ad uso e consumo. Quante volte abbiamo sentito parlare di una Seconda Repubblica quando invece – diversamente che nella Francia del 1958, quando si passò dalla Quarta Repubblica (parlamentare) alla Quinta Repubblica (semipresidenziale) – in Italia non è intervenuto nessun cambiamento nel nostro assetto costituzionale tale da giustificare tale termine? Nel frattempo, secondo alcuni siamo già alla Terza Repubblica, così come dal 2.0 siamo passati in un lampo al 4.0 e così via, in un’orgia di parole vuote, ormai prive di alcun rapporto con la realtà.

E quando in classe mi chiedono di spiegare qualcosa della nostra politica faccio fatica a usare i termini giusti; perché quelli comuni sono tutti usciti dal proprio binario, evaporati sotto i riflettori degli imperativi comunicativi di massa: quante volte, ad esempio, abbiamo sentito dire nei nostri dibattiti politici la parola riformista, termine risalente al dibattito tra le diverse correnti socialiste di cento e più anni fa ma assolutamente improprio nelle realtà europee di oggi laddove tutti sono per le riforme e nessuno – come invece era un secolo fa – sostiene la causa della rivoluzione (solo a sentirla, questa parola, viene da ridere – o da piangere).

Svelare questi inganni vuole dire insegnare a essere svegli e padroni delle parole prima e della mente poi, significa ingaggiare una battaglia occulta contro tutti i persuasori (più o meno occulti) dei poteri costituiti a cui fa molto comodo che esistano non individui ma una massa che parla alla stesso modo e pensa allo stesso modo, possibilmente sempre meno e con sempre meno parole; anche questo, forse, è fare politica: non in senso partitico, ma occupandosi – per come si può – della poleis.

fare politica: non in senso partitico, ma occupandosi – per come si può – della poleis

Concludo con una frase che – ahimé – trentacinque anni fa era solito pronunciare il nostro insegnante di Educazione Tecnica (all’epoca si chiamava così: poi sono cambiati vari ministri) ogni volta che qualcuno di noi inciampava nel formulare un discorso: sorrideva, allargava le braccia e diceva: “Alla fine ci si intenderà a gesti”. Agli insegnanti spetta il compito di far sì che non si arrivi a quel giorno; o, almeno, di provarci.